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Il controllo del giudice sull’attività di indagine e sulle scelte del pubblico ministero in merito all’esercizio dell’azione penale


(P22016)

Marco Alma, Costantino De Robbio

Mitja Gialuz

Vi è sempre maggiore consapevolezza dell’influenza decisiva che può esercitare sulle sorti di un processo penale la qualità degli atti di indagine e la loro tenuta probatoria sia dal punto di vista formale che da quello sostanziale e ciò anche con riguardo alla formulazione del capo di imputazione (quello preliminare dell’incidente cautelare o quello che segna l’esercizio dell’azione). È una questione di economia delle risorse, oltreché di garanzia effettiva dei diritti fondamentali coinvolti nell’esercizio della giurisdizione. Una corretta definizione dell’accusa delimita il campo del contendere, focalizza il tema della prova, evidenzia precocemente il potenziale livello di tenuta dell’incolpazione, modera il rischio di regressione totale o parziale del procedimento. È compito e responsabilità del pubblico ministero l’enucleazione, nel novero degli avvenimenti emersi dall’indagine, di quegli elementi del fatto che ne consentono la riconduzione ad una figura incriminatrice, ed alle eventuali fattispecie circostanziali. La legge e la giurisprudenza vivono poi della tensione tra due esigenze fondamentali. La prima è quella della corrispondenza tra accusa e sentenza, che esige stabilità dell’imputazione almeno nella fase finale del giudizio, finanche in punto di qualificazione giuridica del fatto (basti ripensare alla celeberrima sentenza Drassich della Corte edu). La seconda è quella di conservare flessibilità per l’accusa, in un sistema che concepisce addirittura l’adozione di cautele a monte dell’esercizio dell’azione, e per altro verso riserva al dibattimento il modulo privilegiato di assunzione della prova, quindi postulando che la definizione del fatto, in termini di precisione e completezza, interviene di norma a processo iniziato. A quest’ultimo proposito, il testo degli artt. 516, 517 e 518 c.p.p. documenta come il legislatore avesse concepito le modifiche della contestazione come un fatto assolutamente fisiologico (per non parlare dell’originaria adesione al principio iura novit curia). Va riconosciuto, però, che il bilanciamento operato dai compilatori del codice, tra esigenze di progressione del giudizio e recupero di garanzie per l’imputato, non ha retto alla prova dei fatti. Il profilo più vistoso riguarda la perdita di chances di accesso ai riti speciali, in favore dell’imputato, riguardo al fatto poi ritenuto in sentenza. A questo proposito, il corso sarà anche occasione per “sistemare” il quadro di pronunce di incostituzionalità che ha inciso sugli artt. 516 e 517 c.p.p., muovendo dall’idea di variazione patologica dell’accusa per sfondare, in tempi più recenti (ma solo parzialmente), il muro delle variazioni fisiologiche. Ma dovranno anche indagarsi i riflessi del mutamento sulla composizione del giudice (art. 521-bis c.p.p.), sulla competenza, sul diritto alla prova, ecc. Tutto ciò, naturalmente, avuto riguardo, per un verso, ai poteri di iniziativa del pubblico ministero, e per altro verso ai presupposti ed ai limiti del sindacato giudiziale circa l’esercizio di quei poteri, spaziando a quest’ultimo proposito dalle preclusioni tipiche dell’incidente cautelare alle questioni di nullità proposte per gli atti di vocatio in iudicium, fino ai provvedimenti previsti dall’art. 521 c.p.p.


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Il controllo sull’imputazione nei riti premiali.




Emanuela Gai (Consigliere della Corte di cassazione )

Normativa citata


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Giurisprudenza citata


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